martedì 8 maggio 2018

INEVITABILI OMBRE DI UN CORPO AL SOLE

E tu quando hai voglia di piangere cosa fai?
Io striscio, sottovoce, il più velocemente possibile. Cerco un posto che conosco, dove so che posso essere accolto nel mio lato più scuro, denso e tossico e piango. Da solo, piango. Lascio uscire la bava delle mie bestie, dei miei incubi, dei miei mostri del passato, del presente e del futuro. Perché le bestie che vivono nel nero si cibano delle carogne e quando sentono il sangue vengono tutte fuori e si azzuffano per un lembo di carne viva. Sono come il drago di Komodo che studia la propria preda anche per mesi, ne impara le abitudini e capisce il momento migliore, perfetto, per attaccare. Il momento in cui sei più debole, indifeso, scoperto e quando attacca una preda più forte e grande di lui non fa altro che darle un morso per poi allontanarsi e aspettare. Aspetta perché sa che nella sua bocca ci sono miliardi di batteri letali che nel giro di qualche ora faranno effetto e indeboliranno l’organismo che hanno deciso di mangiare. Si allontanano a distanza di sicurezza per non essere attaccati e seguono ogni mossa del loro futuro pasto scrutandone i più piccoli movimenti. Quando il malcapitato inizia a dare segni di cedimento si fanno sempre più vicini sino a quando non riattaccano e sta volta è per uccidere, sbranare, fare a pezzi e divorare inghiottendo lembi interi di carne senza nemmeno masticare. Non gustandosi niente perché ne sono incapaci. Sono  voraci. Maledettamente voraci. Le tue bestie ti osservano con calma, con tutta la calma del mondo. I tuoi neri draghi di Komodo ti scrutano, ti studiano.

Quindi come si può fare se non si vuole essere sbranati?
Si possono adottare diverse tecniche. Alcuni cercano di non essere mai abitudinari e cambiano sempre percorsi, cambiano continuamente abitudini.
Altri cercano di essere sempre molto veloci, di non riposarsi mai, sempre in movimento, sempre rapidi, piccole soste a caso sempre diverse, rimanendo con un occhio aperto, appoggiati con le spalle a una grande roccia guardando davanti.
Altri vivono sempre su grandi e alti alberi, attentissimi a non scivolare, spostandosi il meno possibile per evitare ogni rischio di cadere, per evitare di stancarsi troppo. 
Altri ad un certo punto, quando percepiscono che il momento del morso è vicino, decidono di uccidersi per primi per evitare le atroci sofferenze che arriverebbero.

E tu?
Io faccio in un altro modo. Io ho deciso di non aver paura. Un saggio una volta disse: «Quando mai un drago morì del veleno d’un serpente?». Io sarò drago delle mie bestie. Non avrò timore dei loro morsi e non mi preoccuperò di cambiare la mia vita per non essere attaccato dalle mie bestie. Semplicemente mi farò trovare più forte dei loro morsi, delle loro malattie, dei loro mali, dei loro abissi. Mi lascio mordere quando e come deve avvenire, lascerò il veleno scorrere, lascerò le bestie allontanarsi e le lascerò osservarmi da lontano. Osservarmi nel diventare più forte. Osservarmi indifferente e sano. Pieno di gratitudine perché il mio diventare migliore passa attraverso i loro morsi, così duri, così precisi, così dolorosi eppure così impotenti di uccidermi.
Io dopo ogni morso le ringrazio. Quando passa troppo tempo dagli ultimi morsi mi siedo, sotto un fico, a dormire con le braccia incrociate sul capo, ad aspettarli.

Nefesh – Shades and Lights https://youtu.be/PHXfHDKzsA0

“Furibonda lotta con le fauci della belva
La mia belva, gelosamente mia
Danzano ancora le mie care ombre
Sempre loro danzatrici folli

Dopo tutto ora è chiaro
Accetterò anche loro dentro me
Inevitabili ombre di un corpo al sole
Vi sconfiggerò accarezzandovi

Vi sconfiggerò accarezzandovi
Vi sconfiggerò accarezzandovi

Vi sconfiggerò accarezzandovi“  

lunedì 2 aprile 2018

MY WHITE STAR - monologo live 2014

<<A volte si hanno pensieri che fermano il tempo, a volte si hanno visioni e si vedono cose che bloccano il respiro. Ma alcune volte, si perde il fiato e basta. Perché è la vita. Siamo esseri in divenire. Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Sotto le nostre mani, con le nostre mani, indirizzate dalla luce dei nostri occhi e dei nostri pensieri. Esterniamo la cristallizzazione di ciò che pensiamo.

Quando la persi mi mancò il respiro. Ma non perché avevo perso lei… No. Mi mancò il fiato perché sentii chiaramente d’aver perso me.
Che destino ha un essere umano quando perde se stesso? Che futuro c’è quando la colpa della propria assenza a noi stessi, la sputiamo contro l’Universo, contro l’altro, contro la nostra ombra pur di non guardarci in faccia?

T’avevo persa ed eri finita lucente e incantevole fra quelle stelle che non cadono mai e illuminano la via ai marinai notturni, gratuitamente. Ma il mio mare era così nero e senza te non avevo più una meta verso cui andare.
Dannazione.
Ero un marinaio maledetto e dannato in un mare che sapeva d’inferno, senza più nessun porto da raggiungere. Quella stella che una volta era mia e al mio fianco, ora era un punto bianco che illuminava la mia faccia nera a miliardi di kilometri di distanza. Rabbioso come un angelo caduto fra le lingue calde dell’inferno, lasciavo la mia pallida faccia rivolta verso l’alto. Il cielo.
Il cielo.
Quel posto dove dovrebbe esserci un Dio, così lontano… E dove invece di giorno impera una luce accecante che non si lascia guardare e la notte si riempie degli occhi lucenti della anime morte. Come posso trovarti da qui? How can I find you from here?

Poi lasciai scorrere la rabbia. Lasciai scorrere anche la paura e rimase la malinconia… Mare mio, solo tu sai quanto vorrei annegare tra le tue braccia cullanti e la tua voce morbida

Poi lasciai andare anche la malinconia e rimase un’acqua limpida e ferma sotto di me; un mare che era diventato uno specchio. Mi sporsi per guardare e vidi il sorriso di un bambino, vidi me. In quel mare vidi Dio. Vidi una una stella bianca senza più ombre dentro che mi osservava curiosa, serena e sorridente. Sembrava diventare aria…avvolgendomi…>>



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Monologo pre-concerto NEFESH dell'Aprile 2014 per il lancio e presentazione del nostro terzo disco: "Contaminations".

[Presto sarà fuori anche il nostro quarto disco: PANTA REI. Seguici qui: qui]

mercoledì 24 gennaio 2018

IMMUNE DALLA PIOGGIA

Se la notte arriva e non si è pronti al buio, si verrà spazzati via. Beato colui che saprà come generare la luce dal suo interno, colui che saprà togliere i veli e le croste dalla propria luminescenza per continuare a dare luce alle proprie mani e ai propri occhi. A volte non mi preparo di proposito, a volte non me ne accorgo e le tenebre sono già sulla mia schiena grondando bava, poiché quando l’arido trova il succoso ne brama il cuore prosciugandolo. Quando mi preparo all’aggressione delle tenebre mantenendo fra le mani il nucleo della mia luce a scaldarmi, provo un dolore piacevole. Quando invece i morsi del mio nero mi sorprendono prendendomi alla schiena senza lasciarmi il tempo di ricordare chi sono, vengo spazzato via e non ricordo più da dove vengo. Il desiderio della Fine diventa il più bel pensiero da tenere stretto come fosse luce. L’inganno della disperazione tenta sempre di dominare su questi terreni ora ricchi e prosperosi, ma un tempo provati dalla siccità. Guardando bene tra i rami, tra le foglie, nelle cortecce si possono ancora trovare ricordi e tremori dati dalle nere profondità della dimenticanza di chi siamo.
Queste sono terre che conoscono e ricordano l’assenza del sole, che tremano un po’ ogni fine tramonto, incerte riguardo le future albe e che, quindi, si preparano sempre all’arrivo del buio, accendendo luci dentro ogni piccolo germoglio e foglia secca.
Alberi con radici massicce e profonde che ricordano sempre ma si prendono il futuro, il cielo, il sole, nel presente.


Il buio mi sorprende
Mi abbraccia, mi stringe
La notte torna ancora
Mi lecca collo e spalle

[…]

Preparo la mia luce
Genero la sfera
La stanza mia felice
Immune dalla pioggia


venerdì 8 dicembre 2017

STENDARDI NERI E STENDARDI BIANCHI

Ci fu un tempo in cui mostravo i miei stendardi bianchi per cercare di mostrare il meglio ma infondo sapevo che quelli neri erano tanti quanto quelli bianchi e sicuramente più profondi e potenti. Così succedeva che chi si avvicinava, quando vedeva quelli neri, si allontanava. Sinché non capii che chi si avvicina perché hai mostrato il tuo bianco poi, quasi sicuramente, si allontanerà vedendo o intravedendo il tuo nero. Di conseguenza pensai:
“Se mostrerò il mio nero e qualcuno si avvicinerà, poi quando gli mostrerò il mio bianco si siederà e rimarrà qui accanto a me”.
Così feci. Ma ovviamente poi non si fermò più nessuno. Allora pensai:
“Se io sono qui per far avvicinare qualcuno per poi stare vicini, fare due parole, confrontarmi e condividere, a che pro continuare a mostrare gli stendardi neri se, così facendo, non si avvicina a priori più nessuno? Io mi avvicinerei a chi sventola i suoi stendardi neri?” e mi risposi:
“No, perché in generale il mondo funziona che tutti sventolano ciò che di più buono hanno, cercando di tenere ben nascosto il nero. Se mostro il nero il mondo penserà che sia il mio bianco…”
Allora lasciai stare, abbassai tutto e mi sedetti sparpagliando il mio nero e il mio bianco a terra, intorno a me secondo le insondabili regole del caos. Tutto lì, così chi fosse passato avrebbe potuto vedere più o meno tutto quello che c’era da vedere. Certo, non avendo più stendardi affissi in tralicci in alto per aria, ci si doveva avvicinare un po’ prima di vedere cosa c’era a terra accanto a me, però così almeno chi si avvicinava poteva avere una panoramica più ampia del tutto. E poi sarebbe stato anche più facile poter guardare negli occhi chi si fosse avvicinato per poter, magari, anche regalargli un sorriso. 

Ora c’è più gente che passa e si ferma ad osservare, a dare un’occhiata. In pochissimi si siedono un po’ per fare due parole e tutti, ognuno con i suoi tempi, alla fine se ne va. Poi ho anche notato una cosa: gli stendardi neri che prima stavano appesi per aria non prendevano bene il sole perché erano verticali per aria, mentre ora messi così a terra, lo prendono tutto e con il tempo quel nero che sembrava inattaccabile si è sbiadito regalando sfumature di colori inaspettate che è proprio un piacere guardarle, se non altro per me.

La differenza? La differenza è che così facendo non perdo più tempo a decidere cosa far vedere e cosa no: è tutto lì a terra accanto a me. Per vedere i particolari, se si è interessati, basta fermarsi, avvicinarsi, chiedere, ascoltare, passare del tempo lì passeggiando osservando…

Io, nel mentre, faccio il bucato, sciacquo, insapono, canticchio, sorrido al sole e stendo i panni.

Se volete un caffè chiedete che carico la moka, se avete preferenze riguardo il tipo di caffè portatevelo con voi che a me, anche se piace il mio, sono sempre curioso di assaggiarne di nuovi, quindi sarà un piacere sentire com’è il vostro caffè preferito in vostra compagnia…


Spirito ruvido
Di chi cerca pensando
Occhi potenti
Di poche parole

Apparenti ghiacciai
Proteggono pulcini
E nascondono
Esplosioni bianche

mercoledì 8 novembre 2017

IL MOMENTO DI MEZZO

A volte la Solitudine parla ruvida all’anima: Come sei giunto sin qui, dopo anni, in questo modo?  Perché sei ancora qui ad avere bisogno di me? Chi eri e chi sei diventato? Hai ancora paura di occhi che ti vedono e che ti guardano?

"No, non è questo a farmi tornare da te e da me. Sai bene che c’è chi ha paura di te e cerca negli altri una fuga dalla tua presenza. Io no, tu lo sai e vuoi provocarmi. Io ti cerco tanto quanto cerco la compagnia, la condivisione, la convivialità. Gli altri mi fanno un po’ paura solo quando mi svuotano e non sono in grado di riempirmi, di guardarmi, di dirmi ciò che pensano, di aprire in loro e in me quelle porte che nemmeno sapevano e sapevo di avere. Temo gli altri quando sono delle entità inconsapevoli della propria luce e rimangono neutri seppur vivi."

La Solitudine mi raggiunge a passi felpati, a braccetto con il Silenzio, e mi colpisce come un duro rimprovero della vita. Sembra farmi sentire inappropriato a me stesso, inappropriato a questo insieme bellissimo di colori che vedo intorno a me con i quali però non trovo un contatto. Mi sembra di toccare la realizzazione di me stesso come potrei toccare, con mani buche, foglie che cadono al vento. Un’affannosa ricerca di trovare la luce delle stelle oltre un cielo annuvolato. Forse in una stanza completamente disordinata almeno un oggetto è probabile che sia esattamente nel posto in cui dovrebbe essere, così penso che nel caos di questo istante, in questa stanza di oggi, almeno una cosa dovrebbe essere esattamente dove deve essere e inizio a cercarla. Il Silenzio dopo aver visto il caldo di alcune lacrime tenta una frase e dice è un momento di transizione. Una frase che sarebbe così scontata se non fosse stato proprio il Silenzio a dirla.
E mi fa pensare.

Guardo dentro. Il cantiere è fermo, i lavori sembrano bloccati, gli operai non capiscono che succede, non capiscono perché da giorni non hanno direttive, si girano verso il capocantiere che di solito è sempre così indaffarato fra carte, ordini da dare, il correre dappertutto per controllare il lavoro dell’intera squadra e vedono anche lui fermo, decisamente sorpreso, smarrito, non capisce e rimane statico in attesa di nuove direttive da seguire e far seguire. Nelle sale dei piani alti i dirigenti si guardano intorno e non trovano né le carte né i file dei progetti che avevo preparato tempo prima, alcuni progetti li ritrovano ma sembrano ora vecchi e imperfetti e non sono più sicuri se portare avanti quei lavori in quel modo… Per cui temporeggiano, aspettano a dare il comando agli operai di procedere. Chi passa vede i lavori fermi, ma non ci fa molto caso perché pensa che probabilmente sono solo gli operai che si stanno riposando un attimo, facendo una pausa dal duro lavoro. Ci può stare. Ma chi era solito passare da tempo rimane un po’ sorpreso perché aveva sempre visto quegli operai lavorare a testa bassa, quel capocantiere correre e urlare come un forsennato, le betoniere sempre cariche e in movimento, il rumore dei ferri che sbattono, martelli pneumatici al lavoro… E sanno che quel momento della giornata non è il momento della pausa, non lo era mai stato prima e non dovrebbe esserlo ora. Certo si fermano solo un attimo poi devono andare avanti per la propria strada e non si fanno troppe domande a riguardo. Forse hanno finito i soldi, forse gli operai stanno facendo uno sciopero… Mah… Guardano, si fermano un attimo e passano.
Ma gli operai non stanno facendo uno sciopero, anzi, avrebbero voglia di continuare a lavorare duro come sempre, ma i comandi mancano. Sono finiti i soldi? Abbiamo commesso qualche errore irreparabile? Siamo tutti a rischio?

Poi, con sorpresa, vedono che l’operaio più vecchio di tutti sta sfruttando quella sosta forzata riposandosi seduto, bevendo dell’acqua, rinfrescandosi la faccia impolverata, guardando il cielo, occhi chiusi rivolti al sole. Lui sa. Sa che i lavori riprenderanno più duri di prima o almeno il suo istinto gli dice così. I progetti cambiano e quando i progetti cambiano si deve lavorare più duro di prima perché poi spesso bisogna andare a rompere nel fondo le fondamenta che si erano fatte anche molto tempo prima e bisogna andare a modificare il resto della struttura seguendo le nuove direttive. Il vecchio lo sa che quel cantiere non è affatto fallito ma è solo fermo. Arriveranno ordini e bisognerà sudare più di prima. Perché sa bene che quando la costruzione è molto alta, complessa e ambiziosa c’è un momento durante il lavoro in cui i progetti nelle carte non trovano più pieno riscontro nei fatti dei mattoni posati giorno per giorno nella realtà. Sa che c’è quel momento in cui tutto si deve fermare per essere rimesso sul tavolo dei piani alti per ripartire migliore di prima. Per cui sai che c’è? C’è che quel momento di stasi se lo gusta, guarda il cielo, fa dei respiri più profondi del solito e sorride appena. Gli altri non comprendono ma percepiscono che anche loro capiranno qualcosa presto. Si sentono meglio.

Una transizione non è un periodo che semplicemente sta fra altri due periodi più importanti. Una transizione è il momento fondamentale della costruzione, quel periodo che a seconda di come lo si vive può portare ad una struttura migliore o peggiore di come il tutto era prima. Il Silenzio sembra aver consigliato di non preoccuparsi troppo ma anzi imparare dal vecchio operaio e sfruttare quei momenti, giorni, mesi per ricaricarsi, rinfoltire il manto di piume delle proprie ali per ritornare fra le braccia di Eolo con più grinta, fare il pieno di sorrisi e ringraziare.

A volte il Silenzio e la Solitudine sono due presenze dure ma se prese a giuste dosi riescono ad illuminare squarci di vita che se no con il loro nero farebbero crollare l’intero sole dentro.



Foglia che cadi
da un manto di stelle
vedo il sorriso

Sublimi la morte
Da fine a passaggio
Divinamente

giovedì 29 ottobre 2015

PRIMAVERA

Ora girano nell’aria le note della quarta sinfonia di Pëtr Il'ič Čajkovskij. Una grande ansia di abbracciare e stringere la felicità fra le braccia e un continuo insuccesso nel tentare di farlo. Non so…come un cercare di prendere una saponetta in una grande vasca umida… acqua da tutte le parti e un casino assurdo! Mi ripassa in mente la bella giornata di oggi. Forte. Calda. Il tempo, i minuti, i secondi li ho fatti passare come quando si lascia cadere la sabbia dalla propria mano stringendola nel pungo. La sabbia in ogni caso scende, quello che si può fare è decidere la velocità con cui farla cadere. Oggi sono riuscito a far passare il tempo come dicevo io, senza mai perderlo. Il luccicante riflesso del sole sull’acqua aiuta a perdersi e i movimenti che fa fare l’acqua del mare al corpo, cullano la meditazione. Spiattellano i pensieri in una superficie più ampia così che poi li si può vedere con più chiarezza. Troppo spesso invece lasciamo il controllo della nostra mente a pensieri che fluiscono a caso fra le pareti dell’immaginazione, ribalzando senza ritmo…come mettersi in una macchina nel sedile di dietro, senza nessun conducente davanti e lasciarla andare. Non si sa dove va e molto probabilmente si finirà in un fosso o peggio in un dirupo…dovremmo cercare sempre di metterci al posto di guida della nostra macchina. Delle nostre emozioni. Dei nostri pensieri.
Si, oggi ero allineato.


Ciò che diventerete
Come la luna o un sogno
Sarà perfetto

I vostri crateri
In lontananza

Saranno bellissimi

martedì 4 novembre 2014

ALLA RICERCA DELLA FELICITà, DELLA LIBERTà, DELLA VITA (scritto diversi anni fa)


La bellezza va curata tutti i giorni (e non parlo di quella esteriore, o perlomeno entrambe vanno curate tutti i giorni), la felicità va conquistata un pezzo al giorno come anche la libertà. O meglio si nasce liberi e perfetti ma poi con il tempo ci auto imponiamo tutta una serie di limiti che ci fanno diventare imperfetti, brutti, tristi e prigionieri di noi stessi. Il percorso che si deve fare non è quello di “migliorare” ma è quello di “ricordare”, di “purificare”. La nostra luce interiore è come se la soffocassimo nel tempo attaccandogli sopra veli scuri di paure, timori, ansie, nevrosi…ciò che dobbiamo fare non è migliorare perché siamo già perfetti nel nostro intimo, dobbiamo staccarci di dosso quei maledetti veli che abbiamo incollato sopra il nostro faro, che ci hanno attaccato i nostri genitori dicendoci da piccoli cosa eravamo capaci di fare e cosa no, cosa potevamo e non potevamo fare con frasi tipo: “No, ma tu non sei portato a fare…”, “No ma lascia stare non ce la fai…”, “Te l’avevo detto…”, “Io non ti ci vedo proprio…”. Anche la società con i suoi schemi prefabbricati e già strutturati ci ha comunicato altri limiti, ci ha detto cosa ci avrebbe reso felice e cosa no, ci ha detto cosa significa essere di successo e appagati, ci ha detto cosa dobbiamo fare o comprare per conquistare la libertà.

E noi gli abbiamo creduto.

Pensando che la felicità, l’appagamento, la realizzazione la si raggiunge tutti allo stesso modo. E così abbiamo affossato ancora di più la voce della nostra luce, ascoltando ancora meno le richieste del nostro io interiore e lasciando spazio invece alle voci dell’esterno, che praticamente sempre hanno nascosti in loro altri fini e che non sanno assolutamente niente di noi e della nostra interiorità. Chi meglio del nostro io interiore sa cosa ci serve davvero per la nostra felicità?

Però in tanti ormai confondono le voci “dell’esterno” con quella “dell’io interiore”. Non le distinguono più. Anzi, scusate il termine, ma il piano di rincoglionimento di massa è così talmente riuscito che tanta gente ha così tanto interiorizzato le voci dell’esterno da credere ormai che quella è la loro reale volontà. Così fanno tutto quello che credono dia loro felicità e poi si ritrovano tremendamente vuoti, tristi, aridi e incattiviscono convincendosi che “la vita è così”.

Nelle nostre ansie, depressioni, tristezze, disperazioni siamo perfettamente i figli di questa società. Siamo il perfetto prodotto di come vorrebbero che fossimo. Pieni di ansie, mancanze, bisogni. Ma quelle che crediamo siano le nostre ansie, depressioni, tristezze, disperazioni in realtà non sono nostre, non siamo noi. Sono come parassiti che ci hanno attaccato dall’esterno per renderci vulnerabili, gestibili, bisognosi.

Noi non siamo così.

Quelle ansie non sono nostre, non sono parte di noi, sono solo dei pezzi neri che ci siamo attaccati sopra di noi (o abbiamo lasciato che altri ce li attaccassero addosso). Noi infatti siamo tutti pezzi di luce purissima. Nella nostra profondità siamo assolutamente lucenti, a immagine e somiglianza di Dio, noi stessi Dei incarnati capaci di creare la nostra vita come meglio crediamo o vogliamo. I limiti che abbiamo, o meglio che crediamo di avere, ce li siamo messi noi e ora siamo incapaci di toglierceli. E quando non ce li hanno messi gli altri ce li siamo messi noi per paura. E poi ci rattristiamo e ci disperiamo una vita intera davanti a questi limiti autoimposti. È uno dei paradossi più grandi di noi stessi. Quando ti viene da dire “sono fatto così” non è la tua interiorità che parla ma sono i “parassiti neri” (ansie, paure…) alimentati dalle voci dell’esterno a farti parlare così. Loro vogliono farti credere che sei così, ma tu in realtà non lo sei. Il tuo io interiore davanti alle possibilità della vita ti dice sempre come vuole essere ma noi altrettanto spesso lo reprimiamo con pensieri del tipo “no, così non si può” “magari potessi” “non ci riuscirei mai” “sarebbe troppo bello”. Così ci togliamo da noi la divinità creatrice che ci contraddistingue e colpiamo a morte la nostra passione, uccidiamo lentamente la nostra luce, reprimiamo e stacchiamo pezzi del nostro lucente io interiore sotto gli occhi compiaciuti dei “parassiti” che ci hanno intaccato la mente dall’esterno.

Liberiamoci.

C’è un io interiore che ci chiede aiuto…magari anche in ogni desiderio “pazzo” che ci prende la mente. In qualsiasi momento della giornata potrebbe esserci la richiesta d’aiuto della nostra luce attraverso un pensiero strano, un’intuizione, un pensiero o progetto che noi etichettiamo subito “troppo bello”. Non lasciamolo morire. Non autocastriamoci ancora una volta.

Non si può sperare di raggiungere la felicità continuando ad agire in preda all’egoismo, alla presunzione, alle chiusure, all’arroganza. Ergiamo muri alti e spessi dentro i quali ci chiudiamo ermeticamente e poi ci domandiamo perché non vediamo la luce e urliamo “ah, vita crudele, mondo malvagio, siamo nati per soffrire e morire in questa valle di lacrime”. Si, nella condizione di vita che vi siete creati così facendo, si. Non dobbiamo confondere quei muri con il panorama che invece la vita offre a chi impara semplicemente a guardare.

Ma il fatto è che abbiamo paura. Le nostre azioni, fateci caso, sono determinate alla loro profonda radice da due possibili forze: l’amore o la paura. Tutto ciò che deriverà dalla paura porterà mattoni e cemento per costruire i nostri muri, per murarci vivi, per costruire la nostra tomba. Tutto ciò che invece deriverà dall’amore ci porterà alla felicità, all’appagamento, alla realizzazione, al respirare l’aria delle montagne e a sentire la brezza del mare.